Giovedì 7 novembre la BCE ha deciso, a sorpresa, di tagliare il costo del denaro di un quarto di punto raggiungendo il minimo storico dello 0,25%. E’ il quinto taglio consecutivo a partire dal settembre del 2011, il quarto della presidenza Draghi. A quanto è dato sapere, la riunione in cui è stata adottata tale misura è stata drammatica, con il partito dei falchi capeggiato da Jens Weidmann ad esercitare la consueta azione di freno.
Tuttavia, quello che potremmo definire il blocco mediterraneo più alcuni Paesi della periferia ha fatto valere – finalmente ! – il suo peso numerico e politico. E questa è certamente un’ottima notizia. Nel commentare la decisione, Draghi ha cercato di sfumare i contrasti ed ha parlato di un provvedimento scaturito da un “outlook modificatosi solo nelle ultime settimane”, dichiarando che l’Eurotower è pronta a ritoccare ulteriormente al ribasso il tasso di riferimento per combattere la debolezza della congiuntura nell’eurozona.
In realtà, molti qualificati osservatori anche di Oltreoceano auspicavano da diverso tempo una misura del genere e continuano a ritenere reale il pericolo che i principali Paesi cadano nella trappola della deflazione come il Giappone negli anni ’90. Le rilevazioni parlano di un’inflazione allo 0,7%, l’analisi degli aggregati monetari evidenzia un M1 in declino in termini reali, un M3 dall’andamento per lo meno piatto; se poi si passa ai rapporti di cambio, si riscontra che l’euro si è apprezzato nei confronti del dollaro, a far tempo da giugno, dell’8% e su base annua a fronte dello yen addirittura del 30%.
La decisione del 7 novembre, dunque, anche se tardiva è sacrosanta tanto dal punto di vista tecnico che, come osservato, da quello politico. Rammentiamo che la “sindrome giapponese” vuol dire un’inflazione sempre più bassa, la crescita del valore reale del debito pubblico, il peggioramento della sua traiettoria di sostenibilità, la contrazione (o una crescita anemica) dell’economia, la discesa dei salari ed il perpetuarsi nel tempo di questa nefasta dinamica.
Non a caso proprio in questi giorni Standard & Poor’s ha declassato per la seconda volta in meno di due anni il rating della Francia ad AA, denunciando i rischi di una situazione simile a quella che abbiamo cercato sinteticamente di tratteggiare; fra le consuete proteste d’Oltralpe contro l’arroganza dei signori americani del rating, si è levata la voce di un politico come Arnaud Montebourg il quale ha dichiarato che il Paese abbisogna di una politica più espansiva e che il problema è di carattere anzitutto politico. Appunto. Lo stesso ha poi osservato che un deprezzamento dell’euro del 10% salvaguarderebbe 150mila posti di lavoro in Francia.
E l’Italia? In un’attualità politica contrassegnata dalle convulsioni berlusconiane a destra e dalla diatriba su Renzi a sinistra, c’è poco da segnalare. Le grandi riforme continuano ad essere nel libro dei sogni, rischiamo seriamente di arrivare a fine anno senza aver eliminato le Province, ci proponiamo nel 2014 di contribuire a ricapitalizzare il nostro traballante sistema bancario (dodici gli istituti sino ad ora commissariati, più il MPS vero e proprio dead man walking) mediante un provvedimento geniale : rivalutare le quote che i principali istituti detengono nel capitale di Bankitalia, un mero espediente contabile che il Wall Street Journal ha impietosamente definito “il gioco delle tre carte”.