Chi prende cosa, quando e come. E’ il metro che dobbiamo utilizzare per giudicare la politica, secondo Harold Lasswell, perché le scelte dei decisori sono spesso a somma zero: c’è chi vince e c’è chi perde.
L’ultima proiezione sul nuovo fisco previsto dalla riforma del federalismo fiscale redatta dal senatore del Pd Marco Stradiotto, infatti, ci dimostra chiaramente che il Sud perde e il Nord vince. Le risorse pubbliche, con le riforme, verranno ridistribuite in modo regressivo, dal Sud al Nord; cioè, dai poveri ai ricchi.
Si tratta di un vero e proprio trend di diminuzione della spesa sociale e dei trasferimenti dello Stato, come dimostrò due anni fa Gianfranco Viesti con il suo libro Mezzogiorno a tradimento, determinatosi e ampliatosi sotto vari governi. Perché effetto di una politica condivisa, nella sostanza, da destra a (parte della) sinistra.
Con la fine dell’intervento straordinario, infatti, uno stuolo di economisti sostenne che il Meridione si sarebbe sviluppato senza bisogno di assistenza statale, in virtù di un fisiologico vantaggio competitivo rappresentato dall’entità dei salari che avrebbe spinto le imprese a delocalizzarsi a Sud.
Era la stagione del “Manifesto dello sviluppo locale”, dove i Patti territoriali, attraverso delle vere e proprie gabbie salariali, portavano nuove attività e il miraggio di uno sviluppo vero, senza spreco di soldi a pioggia. Il fallimento di quella stagione, però, non ha spinto a ripensare ad altre politiche d’intervento per il Sud. Il mantra è che bisogna puntare sulle eccellenze, cioè sul Nord, e, nella lunga distanza, la moltiplicazione del reddito renderà possibile ridistribuire risorse al Mezzogiorno.
La bontà di queste interpretazioni, d’altronde, è accettata come un dogma e poco importa che “nella lunga distanza saremo tutti morti”, come chiosava Keynes per sottolineare l’aleatorietà di certe strategie. Di sicuro, il Mezzogiorno è passato dalla padella del liberalismo di sinistra, invocato dai mentori del New Lab come i bocconiani Giavazzi e Alesina, al federalismo corporativo e regressivo del Pdl a trazione leghista. Il federalismo liberale, in definitiva, presupponeva una forma di finanziamento pubblico atto a mettere il Sud in condizione di competere con il Nord. L’idea di fondo era che la competizione fra territori avrebbe determinato dei meccanismi “a mano invisibile” capaci di giungere all’allocazione ottimale delle risorse.
Questo problema, invece, è superato a piè pari dal federalismo leghista che postula, da un lato, che il Nord venga ristorato dell’assistenzialismo lazzarone, dall’altro che le “piccole patrie” debbano essere protette dalla globalizzazione e dai “mercatisti”, con misure di carattere protezionistico.
L’ipotesi di Stradiotto che Napoli riceverà il 60% di risorse in meno, quindi, è verosimile perché i Fas, i fondi aree sottosviluppate destinati al Mezzogiorno, sono stati già rigirati da Tremonti al Nord, nonostante la censura della Corte dei Conti.
Il ministro dell’economia, inoltre, ha più volte stigmatizzato le Regioni del Sud perché hanno speso solo l’8% dei Fondi europei 2007/2013, dimenticandosi colpevolmente che, in base al principio di addizionalità e complementarità, per ogni euro di Bruxelles utilizzato ce ne devono essere 7,6 di spesa statale. Ma se lo Stato non investe, le Regioni non possono accedere al salvadanio comunitario.
Lo zeitgeist filo padano è questo, allora, e vale la pena farsene una ragione. Se è difficile, quindi, che qualcuno aiuti Napoli, Napoli, però, potrebbe ancora farcela da sé.
Il livello di spese di auto-amministrazione del nostro Comune, infatti, è fra i più alti d’Italia (531 €/abitante vs 337 €/abitante media nazionale, secondo Civicum), mentre le spese sociali sono fra le più basse. Efficientare la macchina amministrativa significa, quindi, ridurre i costi e avere più cassa per le politiche sociali.