L’austerità espansiva esiste e la dimostrazione è il caso dell’Irlanda, chiosano i corifei del pensiero unico. Ma è veramente così?
Il salvataggio deliberato nel novembre del 2010 pari a 85 miliardi di euro in favore dell’Irlanda parrebbe, infatti, dare buoni risultati. Il Fondo ha dichiarato che il Paese sta “svoltando” e a fine anno sarà in grado di recuperare la sua piena sovranità economica ripresentandosi sui mercati internazionali dei capitali.
Le vestali del pensiero unico dominante, i sacerdoti dell’austerità risanatrice possono dunque dare fiato alle trombe e proclamare che se la terapia funziona in Irlanda non potrà che portare i suoi frutti anche negli altri Stati oggetto di salvataggio nonché in quelli (il pensiero corre all’Italia) che, sebbene in piedi, versano tuttavia in grave difficoltà: è solo questione di tempo.
Cerchiamo di verificare questo assunto dando spazio alle cifre. Cominciamo con l’osservare che l’economia dell’isola atlantica cresceva ininterrottamente dal lontano 1984 e, a partire dal 1995, la crescita (con punte del 7/8% annuo) si era fatta tale da meritarle l’appellativo di Tigre Celtica; ancora nel 2007, alla vigilia della grande crisi, la performance era del 4,7%. Vari fattori erano e sono tuttora ovviamente alla base di queste performance; l’Irlanda è collocata geograficamente in posizione strategica per le multinazionali, specialmente americane, intenzionate ad espandersi sui mercati europei, a partire da quello britannico; Dublino vanta uno dei tassi di scolarizzazione più elevati d’Europa, è di madre lingua inglese, è demograficamente il Paese più giovane del Continente, ha una forza lavoro dinamica e pronta, in caso di difficoltà, ad emigrare verso gli altri Stati dell’Anglosfera, dal Regno Unito agli USA e all’Australia; nell‘Index of Economic Freedom elaborato dal Wall Street Journal è al 3° posto nel Mondo; nell’indice della World Bank dei Paesi dove i vincoli burocratici alla attività di impresa sono minori è al 15° posto (la Spagna, per dire, è al 44°, l’Italia al 73°, la Grecia al 78°); ha avuto la capacità di arrivare nel tempo ad una aliquota di tassazione degli utili societari del 12,50%, la più bassa d’Europa.
Tutti questi elementi hanno indotto grandi aziende, americane e non, a fare dell’Irlanda la loro base europea, particolarmente nei settori a più alto valore aggiunto come la farmaceutica, l’informatica, i servizi finanziari, trasformando l’isola da un’economia agricola pre-moderna ad un’economia post-moderna, fondata sui servizi più avanzati e la ricerca.
I conti pubblici, inoltre, erano in ordine come pure il livello del debito pubblico. Poi, la grande crisi: la necessità di bassi tassi di interesse funzionali alla grande ristrutturazione dell’economia tedesca ha inondato anche l’Irlanda di liquidità in eccesso, nel momento in cui essa, invece, avrebbe avuto bisogno di saggi ben più elevati e di un rigoroso controllo della moneta onde raffreddare un sistema che correva da tempo a gran velocità; ciò ha ingenerato una enorme bolla immobiliare; le banche irlandesi hanno prestato sino al 28% dei loro impieghi totali al settore edilizio.
Scoppiata la bolla, sono finite al tracollo. Dublino, allora, avrebbe potuto seguire l’esempio di un’altra isola, che ha vissuto un fenomeno analogo, l’Islanda, e rinnegare o rinegoziare il debito estero dei propri istituti. Ma ciò avrebbe innescato una reazione a catena che avrebbe danneggiato i partner europei, soprattutto le banche tedesche.
Il Governo irlandese ha “dovuto” quindi garantire il debito delle banche nazionali, scaricandolo in pratica sulle spalle dei contribuenti, ottenendo in cambio l’inevitabile bail out europeo: nelle febbrili trattative che intercorsero all’epoca, la Germania e la Francia cercarono ad ogni costo di subordinare i prestiti alla decisione irlandese di adeguare la corporation tax ai loro stessi livelli ma il Paese rifiutò, minacciando il default.
Non a caso, nel summit del giugno 2012, l’Europa riconobbe una sorta di dovere morale a risarcire il sacrificio irlandese, votando a maggioranza per consentire l’utilizzo dell’ESM per alleggerire il fardello del debito bancario isolano; ma, ad oggi, non si è ancora assunta alcuna misura concreta per l’azione frenante esercitata dalla Germania.
Che resta?
L’isola atlantica ha subito in questi anni una cura da cavallo che ha fatto contrarre nel solo biennio 2008/2009 l’economia dell’8,8% ed ha imposto un consolidamento fiscale pari al 19% del PIL!
Ciò non di meno, chiuderà il 2013 con un incremento dell’1,1% ed il 2014 del 2,2%: in forza dell’austerità virtuosa? Certamente no. L’export irlandese è pari al 108% del PIL (Portogallo 39%, Spagna 32%, Italia 30%, Grecia 27%).
Il sistema economico fortemente competitivo, costruito negli anni del boom, regge ancora oggi. Nonostante la batosta del consolidamento fiscale imposto da una Germania troppo orgogliosa per riconoscere che l’austerità non funziona.
L’Irlanda tiene nonostante l’austerità, non grazie a essa.