L’agricoltura meridionale soffre. La Campania Felix, che si presentava come un giardino delle delizie agli occhi dei viaggiatori del Grand tour, è ridotta a una pattumiera.
Dove un tempo si coltivava la ciliegia dell’Arecca, fra Chiaiano e Marano, oggi si susseguono colate di cemento e discariche. Eppure, nonostante lo scempio del territorio, la Campania e il Mezzogiorno ancora vantano un settore primario d’eccellenza. In Italia, infatti, il 67% delle coltivazioni biologiche è concentrato al Sud, e su 226 marchi italiani Dop e Igp, il 43% proviene dal Mezzogiorno.
Si tratta di una vocazione territoriale importantissima. Quando si parla di agricoltura meridionale, la memoria corre alla Questione agraria, al sangue dei contadini di Melissa e Montescaglioso e dei braccianti di Giuseppe Di Vittorio. Eppure, già ai tempi dell’Unità d’Italia, l’agricoltura di qualità era espressione di un ceto ristretto ma moderno e liberale: non a caso emarginato, sotto la Destra storica, da quel blocco sociale di latifondisti meridionali e capitalisti del Nord chiamato “ferro e segale”.
Dal governo, quindi, ci si dovrebbe aspettare grande attenzione verso il settore primario del Mezzogiorno.
In definitiva, con la fine dell’intervento straordinario e l’idea di creare una grande industria fordista di Stato, le élite italiane si sono fatte sostenitrici di una visione neobucolica in cui il Mezzogiorno, avendo forzosamente saltato la modernità industriale, si sarebbe riconvertito a una postmodernità fatta di turismo, ambiente e prodotti tipici. Invece, per il governo, da Zaia a Galan, anche l’agricoltura deve soggiacere agli interessi del Nord. Il Pdl a trazione leghista è offuscato da un’ideologia per la quale il Settentrione deve essere ristorato dei baccanali di Roma ladrona e dell’assistenzialismo lazzarone. Ecco perché, dal 2008, nel settore primario meridionale, la spesa pubblica è stata inferiore del 12% rispetto al Nord.
I risultati sono che, secondo l’ultimo rapporto Svimez, contrariamente ai precedenti anni di recessione, oggi, anche l’agricoltura meridionale è investita dalla crisi. La contrazione, nel Sud, è stata del -5% contro il -1,9% del Centro-Nord e si sono persi 115mila posti di lavoro, con un calo di produttività maggiore del Settentrione.
Il governo, quindi, investe al Nord e disinveste al Sud. Simbolo dell’ostilità di Zaia e Galan, infine, è la loro battaglia a favore della mozzarella di bufala padana.
Ci sono precisi interessi che stanno spingendo verso una nuova certificazione della mozzarella basata solo sull’impiego del latte bufalino, indipendentemente dall’origine territoriale del prodotto. Interessi legati al fatto che la mozzarella è la prima competitor di formaggi come Asiago o Parmigiano, che i più grandi allevamenti di bufale in Italia sono in provincia di Cremona e Verona e che il loro latte non è soggetto alle quote Ue.
La sentenza della Cassazione 14285/10 dello scorso aprile, inoltre, in assenza di un adeguato intervento regolamentare, potrebbe agevolare la mozzarella lombarda. La pronuncia, infatti, ammette la denominazione “mozzarella di bufala”, prima vietata, anche in presenza di formaggio fatto con latte bufalino solo al 51%. Mentre il disciplinare della mozzarella campana impone il 100% di latte di bufala.
Che cosa possiamo aspettarci da questo governo, allora, dato che Galan apertamente sostiene la nuova certificazione deterritorializzata e Maroni è giunto addirittura a dire che la mozzarella l’hanno portata in Lombardia i Longobardi?
Ma la nemesi incombe: e la politica “padana” potrebbe ritorcersi contro l’Italia tutta.
Se passa la separazione fra prodotto e terroir implicita nella nuova certificazione da affiancare alla Dop “campana”, l’Italia non potrà più lottare contro i falsi parmesan californiani e la mozzarella cinese. Anche perché, con buona pace di Maroni, sia le bufale campane che quelle lombarde non sono autoctone. Ma provengono proprio dalla Cina.