Gas e petrolio a tutto spiano, la Turchia investe poco sulle rinnovabili e si delineano danni ambientali irreparabili.
Dopo i duplici incontri di quest’estate fra il premier Erdogan, da una parte, e Putin e Bruxelles, dall’altra, il quotidiano nazionale Zaman titolava, con molto orgoglio, che il Paese può oramai rivendicare a sé il titolo di maggior hub energetico del mondo.
Erdogan, infatti, ha siglato accordi sia per il gasdotto sponsorizzato da Bruxelles, Nabucco, che per South Stream, la pipeline concorrente della prima, voluta da Putin per superare il problema ucraino, emerso dalla scorsa crisi Mosca-Kiev.
Mentre il Cremlino e Bruxelles cercavano di farsi le scarpe a vicenda sulle questioni energetiche, Ankara realizza un vero e proprio capolavoro diplomatico; approfittando della propaganda contro l’ingresso della Turchia in Europa, avallata da Sarkozy, ad esempio, che ha legittimato la politica del doppio binario del premier turco.
La strategia anatolica, oggi, si completa con il nuovo accordo col Qatar sulla pipeline per il gas naturale liquido, con l’Azerbaigian per le forniture alla regione autonoma di Nakhchivan ed, infine, con la Siria.
Determinante, inoltre, è il futuro doppio protocollo di ripresa dei rapporti diplomatici con l’Armenia deciso il1 settembre dalle segretarie dei due Paesi. Ierevan ritirerà le truppe dal Nagorno-Karabakh, enclave armena in Azerbaigian, stabilizzando un’area cruciale per Nabucco: e per gli interessi euroamericani.
Ma qual è il costo sociale ed ambientale della politica energetica turca?
In primis, i dati della European Bank for Reconstruction and Development dimostrano che un significativo 88% del fabbisogno energetico turco proviene da fonti fossili: il Paese, quindi, non è incentivato ad adottare politiche verdi. Uno studio dello scorso anno dell’Università di Sakarya (di Hakan S. Soyhan, “Sustainable energy production and consumption in Turkey”) svela che gli effetti ambientali della politica di Ankara, nel lungo periodo, porteranno ad un danno ambientale irreparabile.
Il gruppo di Ong Fact Finding Mission (Scarica Turchia dati 3), d’altronde, unitosi al fine di investigare le politiche pubbliche turche adottate per realizzare le pipeline, nel 2004 (ultimi dati disponibili), giunse ad affermare che il governo di Ankara e delle altre nazioni coinvolte non rispettava le richieste di compensazione dei comuni espropriati, fissate anche in base al degrado della terra, inutilizzabile per l’agricoltura dopo la posa di un oleodotto. Il mancato rispetto degli accordi di compensazione e del degrado ambientale, d’altronde, è stato scoperto lo scorso luglio anche dalla Commissione Ue: per la costruzione della diga di Ilisu, 60.000 curdi saranno sfollati coattivamente ed un intero ecosistema verrà distrutto. La Ue è insorta e ha ritirato i finanziamenti. Ma Erdogan va avanti.