Da alcuni giorni impazza,a Napoli, la polemica fra il vice sindaco Sodano e Massimo Paolucci.
Non è la difesa bloggerista d’ufficio di Sodano che mi interessa, quanto analizzare la figura di Paolucci, a suo modo paradigmatica di un partito, il Pd, che piuttosto che aprirsi alla società, riproduce all’infinito oligarchie autoreferenziali.
E che, nel caso napoletano, lungi dall’aver dato spazio ai tanti, valenti, giovani che all’interno del partito conducono battaglie di civiltà, ha blindato una classe di mandarini e l’ha promossa a deputato. Senza meriti particolari, tranne l’affiliazione e la fedeltà. Anzi, premiando la fedeltà a scapito dell’eccellenza.
Chi è Paolucci? Sarebbe mai stato eletto deputato se non esistesse il Porcellum? Ci soccorre la sua biografia, presente sul sito del Comune di Napoli.
Massimo Paolucci è nato a Napoli nel 1959. La sua passione politica si esprime fin da giovanissimo: a soli dodici anni si fa promotore di una protesta contro le pessime condizioni strutturali dell’edificio dove è situata la sua scuola media. A 14 anni si iscrive al gruppo de Il Manifesto e a 16 matura la scelta di impegno cattolico nel gruppo “Gioventù Francescana”.
Nel 1977 si iscrive al PCI dove, a partire dal 1979, collabora al “Centro Diffusione de L’Unità” e ricopre l’incarico di segretario della sezione Soccavo. Funzionario del partito napoletano nel 1981, ricopre vari incarichi, e tra questi quello di componente della segreteria provinciale con il ruolo di responsabile amministrativo.
Nel 1993 è eletto al Consiglio comunale di Napoli. Nominato assessore nella prima Giunta Bassolino (nel 1995), assume numerose deleghe tra le quali quelle al traffico, ai trasporti, all’arredo urbano e alla polizia municipale. Nel 2000 acquisisce anche la delega alla nettezza urbana.
Nel 2001 diventa Commissario vicario per l’Emergenza Rifiuti, Bonifiche e Acque, incarico ricopre fino al 2004. Dal maggio del 2005 è responsabile della segreteria politica del Presidente della Regione Campania.
Nel maggio 2006 è rieletto al Consiglio comunale di Napoli ed è Consigliere Anziano avendo ottenuto il maggior numero di voti nella lista dei DS.
Paolucci, un po’ chierichetto, un po’ giovane comunista, non ha mai lavorato al di fuori della politica, né ha conseguito brillanti titoli in forza dei quali proporsi come esperto di rifiuti e trasporti. Eppure, non è mai rimasto a piedi o con l’esigenza – salutare – di misurarsi nel mercato del lavoro “civile”. Meglio di altri oligarchi di partito, per carità!, ha almeno fatto politica sul territorio, raccogliendo i voti per fare dignitosamente il consigliere comunale.
Ma, anche qualora volessimo misurare un politico solo dal consenso elettorale, è minimamente immaginabile che un consigliere comunale possa diventare deputato? Se non ci fosse stato il Porcellum, Paolucci si sarebbe dovuto accontentare di qualche segreteria politica, come successe in occasione del suo upgrade in Regione, non fra gli scranni – perché i voti non ce li aveva – ma al seguito di Bassolino. Paolucci, insomma, non ha teknè né voti, eppure è una cariatide della politica: già nel 2006 “consigliere anziano”.
Oggi, praticamente uno zombie.
Esemplificativo degli oligarchi di partito analizzati da Robert Michels, Paolucci, invece, tesse relazioni nelle segreterie, mobilitando gli apparati. Giungendo ad incarichi di governo ma senza popolo, addirittura durante stagioni in cui la stessa democrazia del partito è fortemente compressa, con un calo delle tessere da12 mila a 2.300 iscritti paganti.
Paolucci, d’altronde, è anche distonico rispetto alla retorica veltroniana del “partito che premia le eccellenze”.
Fra rifiuti e bonifiche, l’ex assessore è stato attivo nei settori dove i Ds hanno maggiormente fallito in Campania. E’ addirittura superfluo ricordare la condanna inflittagli dalla Corte dei Conti relativa al suo ruolo di Commissario vicario all’emergenza rifiuti, quando Napoli era sepolta dalla monnezza. Non sono le sentenze a stabilire quanto sia stata fallimentare la sua azione politica.
Eppure, il Pd – il Pd bersaniano che voleva sfidare il M5S sui temi dell’etica pubblica – ha avuto l’ardire di candidarlo.
Il Pd, se vuole tornare a parlare al suo popolo, dovrebbe incominciare a selezionare realmente la classe dirigente: e gli scempi che sono stati compiuti, complice il Porcellum, segnalano una pericolosa autoreferenzialità e incapacità di riflettere su alcune stagioni politiche che, a livello locale, hanno profondamente segnato la nostra storia recente.
Il Pd non può candidare Rosaria Capacchione, che – da giornalista – ha svelato le trame di monnezzepoli, ma anche i protagonisti di quella stagione.
O, forse proprio perché vuole continuare a candidare questi oligarchi, che è così tentato dalle grandi intese.