Mentre l’America di Obama vira verso un approccio neokeynesiano, il governo Berlusconi taglia e propone una fiscalità regressiva; i soldi ai gruppi industriali del Nord verranno presi dai fondi europei, destinati in gran parte a Sud e lavoratori.
Sud e povertà sono i grandi assenti nell’approccio politico macroeconomico di questo governo: come, purtroppo, di molti altri governi precedenti. Né misure straordinarie anticrisi o la social card – di carattere contingente – sembrano capaci di incidere su questo trend che è, invece, sistemico.
In Italia l’aumento della povertà sembra essere incontrovertibilmente legato all’adozione di politiche liberiste. L’irrigidimento del patto di stabilità adottato da Berlusconi, in questo momento, non sembra essere la buona cura per un malato, l’Italia, che è grave.
Il recente rapporto OCSE Growing Unequal? del 2008 è un’anamnesi precisa.
Tra i 30 paesi OCSE, oggi l’Italia ha il sesto più grande gap tra ricchi e poveri.
Redditi da lavoro, capitale e risparmi sono diventati il 33% più diseguali a partire dalla metà degli anni ottanta.
Il nostro Paese ha registrato il più elevato aumento nei paesi OCSE, dove l’aumento medio é stato del 12%.
La polarizzazione fra ricchi e poveri ha “sterminato” la classe media.
Il reddito medio del 10% degli Italiani più poveri è, infatti, di circa 5.000 dollari sotto la media OCSE mentre il reddito medio del 10% più ricco é di circa 55.000 dollari.
I ricchi sono diventati ricchissimi, i poveri poverissimi: in un contesto dove il 10% più ricco detiene circa il 42% del valore netto totale.
Dal sogno della borghesizzazione del proletariato immaginato dal riformismo degli anni Settanta, si è giunti alla proletarizzazione della classe media (ne parlava in quegli anni un marxista come Olin Wright, ma è meglio non infierire…).
La realtà che registra il citato rapporto OCSE dimostra che questi cambiamenti sono partiti negli anni 80, passando per le grandi dismissioni pubbliche dei primi anni Novanta: dei governi dei tecnici, Ciampi, Dini, Amato.
I governi dei sacrifici per ridurre il debito pubblico, fondamentale per l’allora costituenda moneta unica.
In quella fase, l’Europa si trovava in una grande crisi di competitività. Una serie di analisti – che allora rappresentavano il pensiero egemonico espresso da FMI, BCE, WTO – individuò presto le cause del problema: Stato e Lavoro.
Da un lato, per gli economisti public choice, bisognava tagliare sul welfare state keynesiano, costoso ed ipertrofico; dall’altro, erano i lavoratori che dovevano sostenere i costi di ristrutturazione dell’economia: non si poteva intaccare il Capitale che, invece, doveva trainare un nuovo sviluppo magari portando più in là i confini della tecnologia disponibile.
Il primo attacco ai lavoratori passò per l’abolizione della scala mobile. Ma questo nuovo liberismo, apostrofato dai critici “pensiero unico”, recava in sé fortissime energie vitali. Gli economisti public choice, infatti, non postulavano semplicemente che il mercato fosse più efficiente rispetto allo Stato ma – entrando nella riserva di caccia dei socialisti – che era anche più equo.
Erano le classi più svantaggiate, infatti, a pagare i disservizi della pubblica amministrazione, non i borghesi.
Il mercato, allocando in modo ottimale le risorse e riducendo gli sprechi, avrebbe prodotto tariffe anche più basse di quelle pubbliche, determinatesi in un regime di monopolio. Le public utilities erano inefficienti e costose perché – secondo i sostenitori delle privatizzazioni – i politici sono strutturalmente interessati alle poltrone o alla creazione del consenso. Via, dunque, alla concorrenza: e alla istituzione di mercati artificiali, in contesti dove Adam Smith non avrebbe mai potuto immaginare l’adozione di strumenti “a mano invisibile”.
Nasce il welfare market, si privatizzano ferrovie, linee telefoniche, autostrade – quello che per il liberalismo classico sono monopoli naturali – : in prospettiva, si devono privatizzare tutti i servizi pubblici, anche l’acqua.
Avevano ragione o torto questi liberisti? La crescita c’è anche stata. Ma, nella lunga distanza, bisogna concludere che questo approccio – per cui il mercato doveva sopperire ai fallimenti dello Stato – ha fallito esso stesso. Almeno su di un punto. L’equità.
La pretesa di questo “liberalismo di sinistra” – per citare due autorevoli esponenti di questa corrente, Alesina e Giavazzi – di essere non solo più efficiente ma più equo si è dimostrata errata. La forbice fra i redditi aumenta e i poveri stanno peggio. Anzi: il ceto medio scompare.
Di fronte a questa parziale ammissione dell’insuccesso del neoliberismo, e per uscire dalla crisi, Obama rilancia una grande programma di interventi keynesiano: con investimenti pubblici e nuovi posti di lavoro.
Il mantra della riduzione del debito pubblico – messo in discussione dalla stessa Ue che aveva contribuito a farne un vero e proprio simulacro – vacilla. Si torna a parlare di stabilizzazione del debito e “mano pubblica”. Di fronte a questo cambiamento, il nostro governo – dove il colbertista Tremonti si pregiava di essere un keynesiano ed ex socialista – che fa? Poco.
Si irrigidisce il patto di stabilità dei comuni, mentre il presidente Anci ammonisce che l’80% degli enti locali sforerà.
Ciliegina sulla torta: il piccolo programma d’interventi anticrisi viene e verrà finanziato dal Fas (Fondo aree sottoutilizzate) – destinato soprattutto al Meridione – e dai Fondi strutturali, che alimentano i Programmi Operativi Regionali. Due piccioni con una fava. Si levano soldi al disastrato Sud e si impedisce alle Regioni di sostenere quel poco di welfare che ci rimaneva.