L’Onu e la Dichiarazione dei diritti degli indigeni, un lungo e difficile cammino
Soltanto il 3 aprile di quest’anno il governo australiano si è deciso a sottoscrivere la Dichiarazione Onu sui diritti delle popolazioni indigene; un documento “storico”, secondo quanto ebbe a dichiarare il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, il 13 settembre 2007, all’epoca della votazione dell’Assemblea Generale. Ma che, nonostante le solenni dichiarazioni che ne accompagnarono la promulgazione, destava e desta molte critiche.
Basta pensare che, in quella occasione, la Dichiarazione ricevé il voto contrario di Usa, Canada, Australia e Nuova Zelanda, Paesi con numerose minoranze di aborigeni.
Il problema indio, infatti, tocca dei nervi scoperti; in primis, si tratta, per l’Occidente, di fare i conti con il proprio passato e con “il fardello dell’uomo bianco”: colonialismo, assimilazione forzata e genocidio culturale. Ma il problema dei diritti delle minoranze aborigene si estende ad un lunghissimo elenco di Paesi, anche non ex-coloniali, dove la nazionalizzazione delle masse è stata fatta con politiche di acculturazione aggressiva e limitazione dei diritti di cittadinanza, quali il diritto a mantenere una propria cultura e lingua.
Esempi non mancano: dai ladini delle Alpi, agli Ainu in Giappone o agli Uiguri e Tibetani in Cina. La definizione comunemente accettata di popolazione indigena, accolta dall’Onu, estende il concetto ai gruppi originari di un determinato luogo e che hanno sofferto una dominazione del gruppo maggioritario che li ha, in una qualche misura, ridotti in una condizione di non libertà e privazione di diritti o beni materiali.
Non si tratta, quindi, soltanto di minoranze etniche tribali, volgarmente note come “primitivi”. La condizione per essere definiti “popolazione indigena” è quella di condividere sia lingua e costumi che trovarsi in una situazione di disagio e discriminazione. Per gli studiosi, ci sono, oggi, 370 milioni di persone in questa condizione. La Dichiarazione Onu, però, vale solo per gli Stati che l’hanno ratificata. Che sono, attualmente, 143.
In molti Paesi, le violazioni ai danni degli indigeni sono patenti. Un fenomeno ubiquo è l’espulsione delle minoranze dalle proprie terre al fine di favorire la speculazione fondiaria. La presenza degli indigeni, d’altronde, attesta che la terra è buona e incontaminata. Molti indigeni, infatti, vivono secondo i costumi aborigeni; si tratta di società tradizionali che si nutrono dei frutti della terra e che hanno resistito alle spinte dell’urbanizzazione. Sono molti i casi in cui queste popolazioni hanno sofferto gli avvelenamenti causati dalle industrie: moltissimi sono i casi registrati in America Latina, ma non solo.
Tre anni fa, in Canada, scoppiò lo scandalo degli avvelenamenti ai danni dei Kashechewan. A tutt’oggi, la Dichiarazione ha avuto solo limitati effetti giuridici e materiali.
The marginal man e l’imperialismo culturale, le politiche di inclusione per i nativi
Fu lo stesso George Washington ha pensare di promuovere “la trasformazione” e “civilizzazione” degli indiani d’America al fine di “integrarli” nella cultura occidentale imperante: nasce così l’infausta idea dell’assimilazionismo, purtroppo destinata a giocare un ruolo principale in tutte le politiche culturali americane per molto tempo. E che avrebbe operato su due piani: sui native americans e sugli immigrati non anglosassoni provenienti dall’Europa.
Nonostante quest’approccio fosse profondamente etnocentrico, cioè fondato sulla presunzione che la cultura americana fosse superiore alle culture indigene, era legittimato da un atteggiamento positivista, paternalistico e filantropico di miglioramento delle classi subalterne. Attraverso l’acculturazione, gli indigeni avrebbero guadagnato standard di vita occidentali.
In realtà, le popolazioni indigene vennero espropriate forzosamente delle proprie terre. A seguito dell’Indian Removal Act, con il quale si spostavano gli indiani nelle riserve, circa 4.000 Cherokee morirono lungo la marcia di spostamento, per fame e sofferenze. L’espulsione era legata alla corsa all’oro che si era scatenata in Georgia.
Negli anni ’30, la scuola sociologica di Chicago incomincia a studiare i fallimenti delle politiche di assimilazione: Ezra Park scrive il paradigmatico “The marginal man”.
“L’acculturazione” si era tradotta in vero e proprio shock. I popoli sradicati dalla propria cultura e derubati dei propri strumenti tradizionali di sostentamento scivolano ai margini della società: povertà, devianza, criminalità. Ancora oggi, secondo la Sanità canadese, gli appartenenti alle First Nations registrano le più alte percentuali di alcolismo, dipendenze da droga, disoccupazione, suicidio e fallimenti scolastici; con un’aspettativa di vita di 8 anni inferiore rispetto agli altri cittadini.
L’odiosa “cristianizzazione forzata”, parte delle politiche sociali americane di integrazione, prevedevano la messa al bando delle religioni aborigene tradizionali. Solo nel 1973 il Freedom of Religion Act consente agli indiani di riprendere a praticare la loro religione. In Canada, inuit e aborigeni conquistano il diritto di voto nel 1960. Infine, negli anni più recenti, Canada, Australia, Usa e Nuova Zelanda hanno concluso complessi accordi con i nativi in merito ai diritti di cittadinanza, alle politiche di welfare, alla concessione di status di nazioni sovrane e ai risarcimenti per i danni subiti. Alle liquidazioni per gli espropri, si sono spesso accompagnati risarcimenti per i danni ambientali. Non sono mancati casi in cui le riserve sono state avvelenate da industrie, con notevoli danni alla salute per i nativi. Dal 1996, in Canada, esiste una First Nations Commission dove i rappresentati delle tribù siedono con il governo centrale in posizione paritetica. Eppure, ancora oggi, i rappresentanti indigeni sono impegnati nel Grand River Land Dispute in Caledonia, contro un esproprio forzoso legato alla localizzazione di una centrale in un territorio indiano sovrano.
I problemi giuridici per il riconoscimento dei diritti
Il problema indigeno è multidimensionale. La dichiarazione Onu varrebbe per una pletora di “nazioni senza Stato” come i Curdi, i Ceceni, gli Yuánzhùmín (i nativi di Taiwan). Ma, nonostante i diritti degli indigeni possano immaginarsi come parte dei più generali Diritti dell’Uomo, considerati diritto internazionale universale, la Dichiarazione è diritto pattizio e vale solo fra i Paesi contraenti.
Inoltre, non sono i popoli o le persone fisiche coloro i quali possono normalmente azionare i diritti dell’ordinamento internazionale, ma gli Stati.
La tutela è affidata, quindi, soprattutto ai governi nazionali e si pone il problema di verificare le condizioni di vita degli aborigeni, qualora uno Stato tenda a minimizzare le proprie responsabilità con riferimento ai diritti dei nativi.
L’Onu ha, quindi, attivato sia un Gruppo di lavoro che un Forum per favorire il coinvolgimento diretto delle persone. L’ottava sessione dello United Nation Permanent Forum on Indigenous Issues è partito il 18 maggio e continuerà i lavori fino alla fine del mese. Un aspetto cruciale è rappresentato proprio sulla tipizzazione giuridica di alcune categorie, che sono alla base di un corretto funzionamento della Dichiarazione e che rappresentano la massima preoccupazione dei Paesi non firmatari dell’accordo.
Fra queste vi è l’articolo 3, il diritto all’autodeterminazione. Esso è sempre valso limitatamente alla decolonizzazione e si rivolgeva alle ex potenze coloniali. Nella Dichiarazione, invece, per la prima volta nella storia, si riferisce direttamente ai popoli: gli americani, ad esempio, ritengono che questa impostazione leda l’integrità e la sovranità nazionale. Gli occidentali sono molto preoccupati anche dal riconoscimento della proprietà intellettuale indigena e dal diritto dei popoli a mantenere propri costumi giuridici. Si pone, infatti, il problema di pagare le scoperte indigene e si fa strada l’idea che, dentro uno Stato, possano esistere due sistemi giuridici.
Riconoscendo il diritto aborigeno, cambia, infatti, la proprietà di fondi di rilevanza strategica e si ridisegna la sovranità statale: sottratta allo Stato ed imputata ai popoli-nazione.
Le famose miniere di diamante della Namibia, ad esempio, secondo il diritto locale, sono di proprietà tribale, mentre i profitti vanno alle multinazionali olandesi. Le forme di organizzazione sociale, invece, sono spesso diverse dal nostro concetto di “Stato-nazione”. Molte tribù sono organizzate “a grappolo”, sparse su un vasto territorio, fra più Stati: come gli Aro, diffusi fra Nigeria e Gabon. E’ necessario, quindi, favorire politiche di confederazione che prevedano una graduale cessione della sovranità ad organismi sovranazionali terzi che favoriscano l’autogoverno delle popolazioni divise fra più Stati, garantendo l’unità statale.
Arcipelago Asia
Il 70% dei 370 milioni di indigeni sparsi sul globo vive in Asia. Un dato spesso sottostimato giacché il tema indigeno è monopolizzato dagli amerindi. Il Giappone, ad esempio, riceve molte pressioni internazionali per riconoscere i diritti degli Ainu, popolo nativo attualmente localizzato nell’Isola di Hokkaido. Nonostante il rappresentante degli Ainu sia sempre presente ai Forum Onu, il Giappone ancora nicchia: Tokyo dovrebbe, infatti, fare i conti con una triste pagina del proprio passato, fatta di abusi e violenze.
La politica giapponese durante l’occupazione della Manciuria o di Formosa è, infatti, costellata di soprusi. I giapponesi, accusati di aver compiuto stupri di gruppo ai danni degli Han – l’etnia cinese dominante -, furono ancora più crudeli con gli aborigeni taiwanesi, ad esempio: negli anni ’30 compirono, infatti, una strage di 800 civili taiwanesi aborigeni, nota col nome di massacro di Wushe. Durante la II Guerra mondiale, i giapponesi compirono molti massacri di Karen, in Birmania, con l’aiuto dello stesso governo birmano che Tokyo allora combatteva. In Cina, le cose non sono andate in modo dissimile: e non c’è solo il problema Tibet. La Cina è essenzialmente un Paese multietnico dove l’etnia dominante, gli Han, ha sempre mantenuto una posizione di prestigio e tutte le minoranze – definite Fan, ovvero “barbari” – hanno dovuto negoziare, di volta in volta, pochi limitati diritti.
Particolarmente triste è la storia delle popolazioni altaiche. Sotto la Russia zarista erano utilizzate nelle miniere della Siberia. All’epoca della Rivoluzione, presero parte per i menscevichi. Quando Stalin salì al potere sancì che gli Oyrot (come erano chiamati) erano “controrivoluzionari”. Stalin decimò l’80% della loro popolazione. Un’altra popolazione delle steppe, i Buriati, buddisti, furono perseguitati quando Stalin lanciò la sua guerra contro la religione.
Complesso è anche l’intreccio etnico e sociale nel subcontinente indiano. Con l’istituzione del sistema feudale fondiario mogul, il zamindari, gli Adivasi furono trasformati in un umilissimo proletariato agricolo, sottoposto ad ogni forma di vessazione. Durante la diffusione di un’epidemia fra gli Adivasi, gli inglesi cercarono addirittura di sterminarli per arginare la malattia. Ancora più impattante è stata la politica mogul e inglese sulle popolazioni tribali.
Gli Andamanesi, ai tempi dell’impero britannico, erano 5.000: oggi ne rimangono circa una cinquantina.
Il Pakistan, invece, a tutt’oggi è praticamente un’etnocrazia punjabi con Sindhi, Baluch e Pukhtun spoliati dei propri diritti. Nell’Asia centrale, sia la Tailandia che la Cina hanno raso al suolo interi villaggi Akha, per produrre grano e legname. La politica di trasmigrazione indonesiana, per la quale il governo muoveva coattivamente i residenti delle aree sovrappopolate verso Suma e la Papua – e che anche la Banca Mondiale ha finanziato – ha creato un vero conflitto etnico permanente. Con centinaia di morti fra i Maduresi e i Dayak.
Emergenza indigena
Fra i più convinti sostenitori della Dichiarazione Onu sugli indigeni ci sono stati Morales e Chavez. L’America Latina è il continente, infatti, che ha visto emergere il problema indio con più virulenza. Massacri, stermini, cristianizzazione forzata: per il filosofo Tzvetan Todorov, la conquista dell’America è stata, anche, la scoperta dell’altro, un momento di forte riflessione dell’Occidente su identità e alterità. A tutt’oggi esiste un serio problema di espulsione di indios dalle foreste: ciò non ostante, l’azione di Morales, Chavez o Marcos testimonia la nuova centralità della cultura amerinda nella costruzione di un’identità panamericana di stampo bolivariano.
Soltanto nel 1989 la Norvegia ha concesso l’elezione di un parlamento Sami, avviando un momento di riflessione sulle violente politiche di assimilazione – che imponevano il divieto ad usare la propria lingua – intraprese per la prima metà del Novecento.
Particolarmente confusa si presenta la situazione in Africa. Gli imperi coloniali, infatti, stabilirono il proprio dominio appoggiando dei gruppi etnici ed instaurando delle etnocrazie dove una minoranza schiacciava altri gruppi etnici.
E’ il caso degli Acholi nell’Uganda del generale Idi Amin, ad esempio. La guerra in Nigeria fra Ijaw e Itsekiri per le terre di Warri, ricche di petrolio, originano proprio dal favoritismo concesso dagli inglesi agli Itsekiri. I presunti conflitti etnici africani, in realtà, nascono da interessi materiali ed errori delle potenze coloniali.
La divisione fra Hutu e Tutsi fu operata dagli ufficiali dell’anagrafe tedesca attraverso il conteggio delle pecore possedute. Nel frattempo, i pensatori razzisti elaboravano la teoria delle razze amitiche, per la quale, in Africa era possibile individuare delle stirpi di ceppo caucasico ma di pelle nera, più vicine agli Europei, che le potenze coloniali dovevano sostenere: come i Tutsi. Una teoria alquanto grottesca se si pensa che il “ten-cow rule” (la regola di chi possedeva 10 vacche) postulava che i proprietari Tutsi, proprio in quanto “più simili agli europei”, oltre ad essere più ricchi dovevano essere anche più belli ed alti: quindi, tutti quelli bassi venivano schedati come Hutu.
In Africa, la variabile etnica è rilevante: anche se l’etnicizzazione dei conflitti è legata a precisi interessi materiali volti a camuffare la realtà economica della guerra.
La lista dei conflitti etnici africani continua, infine, con i massacri di Anuak nella regione di Gambella da parte degli etiopi, con la guerra fra eritrea ed Oromo, e con il conflitto in Darfour fra Fur, Zaghawa, e Masalit.
Gli articoli precedenti costituiscono un unico speciale sulle Popolazioni indigene, uscito sul quotidiano Terra, il 27 maggio 2009.