Nascita dello Stato sociale
Lo Stato liberale classico riteneva che il governo dovesse limitarsi a battere moneta e a difendere i confini. Quando, come e perché nasce l’idea che lo Stato debba prendersi cura di noi?
L’età dell’oro del welfare è nel XIX secolo. Tuttavia, dei primi abbozzi di Stato sociale sono già ravvisabili nel Medioevo, insieme alla comparsa di una nuova concezione sociale del concetto di povertà.
Nelle società tradizionali, la povertà era considerata ineluttabile e naturale. Se c’era una carestia, la gente moriva.
Tuttavia, i poveri e i contadini, attraverso gli usi civici, avevano la possibilità di procurarsi i mezzi di sostentamento. L’indigenza era, quindi, naturale ma anche non assoluta. E’ con le enclosures che nasce una nuova povertà, prodotta socialmente, e che priva completamente gli indigenti dei mezzi di sostentamento. Con le enclosures, nell’Inghilterra del XIV secolo, i boschi, che erano di tutti, e sui quali tutti vantavano diritti di pascolo, di raccolta dei frutti, etc., venivano cinti e privatizzati; si gettavano le basi della moderna economia capitalistica ma nasceva una nuova idea di povertà.
La privatizzazione dei beni comuni spingeva gli uomini a vendersi nel mercato della forza lavoro come merce e, molte volte, per un salario da fame.
Di fronte ai costi sociali indotti dalle enclosures, Elisabetta d’Inghilterra vara, nel 1611, le Poor Laws, a favore degli indigenti.
E’ sintomatico che nel 1786, Joseph Townsend, un autore che influenzerà molto Adam Smith, pubblichi una dissertazione contro le Poor Laws sostenendo che i poveri debbano essere lasciati nella povertà, in modo che la fame li spinga a vendere la loro forza lavoro al prezzo più basso possibile.
Il dramma delle enclosures diffonde in Europa un’alta conflittualità, scoppiano le jacquerie, le lotte contadine contro i nobili, che spesso si sovrappongono alle lotte di religione (permeate dal pauperismo del cristianesimo delle origini); è il caso delle rivolte dei tuchini in Piemonte, degli albigesi in Francia, degli hussiti in Boemia o dei protestanti in Valtellina.
Lo Stato sociale si sviluppa, quindi, per assistere i poveri prodotti dalle meccaniche dell’economia capitalistica e sgonfiare il conflitto sociale. Infatti, il welfare si accompagnava a due istituti: l’healthfare, attraverso il quale lo Stato – fornendo cure mediche – provvedeva a trasformare i contadini in robusti proletari che potevano reggere gli infernali turni lavorativi dei primi opifici industriali; e il warfare, il sistema pubblico di repressione che fronteggiava il conflitto sociale, dalle jacqueries medievali, alle moderne lotte di fabbrica.
Ascesa e declino del welfare in Italia
Nell’Ottocento, i Paesi più industrializzati, si dotano di welfare.
Lo Stato, per favorire lo sviluppo dell’economia capitalista, istituisce una burocrazia efficiente che reprime i movimenti d’opposizione ad un sistema sociale che produce molta ricchezza ma anche ineguaglianze. L’Inghilterra è scossa dalle lotte dei luddisti, nate con l’urbanizzazione e la trasformazione dei contadini in proletari.
Il valore della forza lavoro è data dalla buona salute degli operai e dalla loro capacità di fare figli, prole, da cui l’etimo.
Lo Stato sociale costituisce uno strumento di riproduzione efficiente della forza lavoro. In Italia, il welfare, si sviluppa più tardi.
Dopo l’Unità d’Italia, la Destra storica è insensibile al tema povertà e sostiene uno Stato ultraleggero. E’ con la Sinistra storica che nasce lo Stato Sociale italiano. Le iniziative più importanti sono: l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita (legge Coppino: 1877); la parziale depenalizzazione del diritto di sciopero (codice Zanardelli: 1889); e l’introduzione di una legislazione sociale a tutela dei lavorati e contro la povertà, a seguito dell’inchiesta Jacini, che svelava la diffusa condizione di sottoalimentazione delle plebi rurali.
Welfare e warfare, aiutare e punire: nel 1898, sotto il governo di Rudinì, il generale Bava Beccaris spara cannonate contro la folla che a Milano protestava per il prezzo del pane.
Nel 1911, parte il progetto riformatore di Giolitti: nascono l’Ina (Istituto nazionale assicurazioni) e l’Ipab (Istituzioni pubbliche assistenza e beneficenza), al via il suffragio universale maschile (per le donne bisognerà aspettare il 1946!). Si sviluppa l’idea che i diritti e benefit pubblici, oltre ai salari che superino la soglia di sussistenza, possano sgonfiare le pretese rivoluzionare dei marxisti.
Sia la socialdemocrazia keynesiana che il popolarismo cattolico o i totalitarismi fascisti vogliono, infatti, proporre una “terza via”, fra liberalismo e comunismo, dove lo stato sociale permetta di superare i conflitti di classe fra capitale e lavoro.
Negli anni 30, il New Deal in America e il corporativismo fascista propongono entrambi un nuovo Stato regolatore che favorisca le condizioni materiali di vita delle classi popolari. Il dopoguerra è l’apogeo della Socialdemocrazia. Ancora più Stato sociale, ma soprattutto concertazione, superando il paternalismo proprio dei regimi totalitari.
Lo Stato fa tutto: in Germania ti paga pure le cure termali. Per raggiungere l’obiettivo della piena occupazione, lo Stato si fa impresa. Anche a costo da far scavare le buche per poi riempirle, come sosteneva Keynes.
In Italia, con Cirio e Sme, lo Stato giunge a produrre panettoni e conserve di pomodoro. Capitale e lavoro non sono più in opposizione, lo Stato non è più disinteressato al mercato ma dialoga con Confindustria e i sindacati per promuovere la pace sociale, sostenere il profitto e i lavoratori. Il ricco Occidente può permettersi di ridistribuire la ricchezza a varie classi sociali. Ma fino a quando?
La crisi dello Stato sociale
Gli anni ’60/70 sono l’età dell’oro dei diritti sociali. Nasce lo Statuto dei lavoratori. Gli operai smettono di essere proletari; non percepiscono più un mero salario di sussistenza, ma devono “far girare l’economia”: più diritti e più soldi.
Il keynesismo ritiene che l’equilibrio fra domanda ed offerta si realizzi non nel punto di massima efficienza sociale. Lo Stato deve, quindi, favorire un sistema di salari più alto, attraverso il quale stimolare l’economia. Lo Stato sociale spende: e spreca. I governi praticano sistematicamente il deficit spending. L’economia sociale di mercato sembra essere il migliore sistema possibile. I capitalisti sono liberi di accumulare indefinitamente, e i salariati possono permettersi una vita fatta di “pane e rose”.
Per i teorici delle socialdemocrazie, gli obiettivi rivoluzionari dei marxisti o l’anticapitalismo non hanno più ragione d’essere. Con la conferenza di Bad Godesberg, l’Spd tedesca abbandona il marxismo nel 1959; in Italia il Pci è sempre più partito di governo e meno di lotta. Il laissez faire sembra un reliquato ottocentesco, i liberisti vengono trattati come dei folli, Von Hayek, padre del neoliberismo, abbandona Chicago e va a Friburgo, i partiti di Destra europei cessano di essere liberali, le elezioni le vincono o i partiti popolari o i socialisti.
E’ il trionfo del Big State. La povertà e la devianza non sono più stigmatizzate come un fallimento individuale, o addirittura genetico, come era nelle teorie razziste di Niceforo o Lombroso. Nelle scienze sociali trionfa il comportamentalismo. Povertà e devianza hanno origini sociali, sono colpa della società. Si può risolvere il problema solo con più welfare e diritti.
Questo idillio si incrina con gli shock petroliferi e si rompe definitivamente negli anni ‘80 – in America e Inghilterra, con i governi Reagan e Thatcher – e, in Italia, negli anni ’90.
Da un punto di vista economico, si abbatte la stagflazione, l’Occidente patisce la concorrenza delle nuove potenze, fenomeno che dura ancora oggi. Le ragioni dell’incapacità di competere in Europa sono individuate nei pilastri della socialdemocrazia. Lavoro e Stato.
La forza lavoro costa troppo, troppi diritti; via la scala mobile, nascono i contratti a progetto, si comprimono i salari. Le imprese pubbliche sono inefficienti, la pubblica amministrazione sovradimensionata; si privatizzano gli enti pubblici economici, si deve ridurre l’amministrazione, ci vuole più mercato e meno Stato. Contemporaneamente cambia la sensibilità pubblica verso il tema della povertà. Secondo i critici dello Stato keynesiano, l’assistenzialismo ha essenzialmente deresponsabilizzato i poveri o i fruitori dei servizi sociali. Bisogna, quindi, implementare politiche di assistenza attiva, di workfare, che incentivino la partecipazione dei poveri al mercato del lavoro o la compartecipazione economica degli utenti nell’erogazione dei servizi di welfare. In questo momento il welfare è in crisi irreversibile: quale sarà il futuro dei servizi sociali?
I fallimenti dello Stato sociale
In un bizzoso gioco di corsi e ricorsi, lo Stato keynesiano doveva rappresentare il superamento del modello liberale ottocentesco.
Oggi, nel nuovo millennio, il mercato viene invocato per supplire ai fallimenti dello Stato. Ma quali sono le critiche principali che investono lo Stato sociale? In primis, questo sistema viene messo in discussione quando la spesa pubblica diventa insostenibile, a seguito della crisi di competitività che investe l’Europa negli anni 80, e che continua ancora oggi. Alcuni studiosi, tuttavia, ritengono che i fallimenti dello Stato sociale vadano al di là della sua (attuale) antieconomicità.
I sistemi universalistici, basati su molti diritti e benefit per tutti, indurrebbero un comportamento noto, in economia, come “azzardo morale”: un esempio è rappresentato dall’esplosione dei costi nella Sanità. Un cittadino, ad esempio, grazie alla Sanità pubblica, preferisce comportarsi in modo azzardato nella misura in cui, se si ammala, guadagna lo stesso e i costi sanitari sono imputati alla collettività, piuttosto che porre in essere misure preventive di responsabilità, i cui costi (la prevenzione) sono individuali.
E’ per queste analisi che si punta sulla compartecipazione dei cittadini alla spesa (i ticket). L’azzardo morale funzionerebbe, quindi, come una tendenza da parte dei cittadini ad abusare di un sistema universale (che vale per tutti) e i cui costi, pagati da una collettività generica, non vengono percepiti come direttamente imputabili allo stesso cittadino.
Da questo punto di vista il welfare sarebbe anche diseducativo e paternalistico, disincentivando comportamenti individuali virtuosi da parte dei cittadini.
I bisogni sociali di cui il welfare tradizionale si farebbe carico, inoltre, sarebbero espressione delle preferenze del cittadino/elettore mediano: una soluzione che vale per tutti, ma che non soddisfa alcuni. Un esempio di ciò è ravvisabile nel dibattito sulle scuole private. Esistono associazioni di cittadini, infatti, che mandano i figli a scuole cattoliche, a loro giudizio più rispondenti ai propri valori, e che lamentano di pagare per la scuola due volte: per la scuola pubblica e per quella privata. La soluzione invocata è rappresentata dai voucher, attraverso i quali i genitori utenti di scuole private, vengono reintegrati con una parte di reddito da spendere per mandare i figli nelle scuole volute.
Le politiche di redistribuzione di stampo keynesiano, essendo inefficienti dal punto di vista economico, alla fine, riducono il reddito nazionale da ridistribuire e non incidono realmente sui bisogni sociali delle persone. Secondo i critici, il welfare è un sistema inefficiente e che, alla fine, non raggiunge neanche gli obiettivi di equità che prometteva. Ma con che cosa possiamo sostituire questo costoso e bistratto Stato sociale?
I rischi del welfare market
La riforma del welfare state sembra, oggi, un dato incontrovertibile. Di fronte alle esigenze di contenimento della spesa pubblica, sia Destra che Sinistra puntano a tagliare la burocrazia. Rispetto al modello tradizionale, oggi si fronteggiano due teorie di welfare. Una neoliberale che promuove l’adozione di un welfare market con i privati che svolgono le funzioni di produzione o erogazione dei bei pubblici. L’altra che si basa sul welfare mix, un sistema misto, dove il ruolo principale lo svolge il III settore, capace di mediare egregiamente fra l’efficienza del privato e l’equità del pubblico.
Infatti, nonostante i problemi posti dallo Stato sociale tradizionale, l’adozione di un welfare market coinciderebbe con l’abbandono totale di una prospettiva di redistribuzione e di equità, accolta dalla nostra Costituzione. Esistono, infatti, molti studi che si sono occupati di privato e di welfare, giacché questo sistema già esiste in America. Ed i problemi che si delineano sono notevoli.
Un caso emblematico del fallimento del mercato del welfare, nel settore sanitario, è rappresentato, ad esempio, dalla “selezione avversa”, che funziona nel modo seguente. Il cittadino che sottoscrive una polizza privata è essenzialmente una persona di pessima salute che sa che sfrutterà abbondantemente il premio assicurativo. Una persona di buona salute, giudicando il costo della polizza troppo elevato stante le sue condizioni, non sottoscriverà nessuna polizza e rischierà.
Da ciò discendono due conseguenze altamente antieconomiche. Le assicurazioni selezionano i clienti peggiori e le loro polizze costano sempre di più. Le persone sane rischieranno sulla loro pelle, pur di non pagare polizze ritenute troppo esose, scaricando i costi delle mancate cure in gioventù sul sistema nazionale universale che in America assiste tutti quando si è anziani.
Ecco perché gli Usa, pur avendo la Sanità privata, spendono di più rispetto all’Europa.
Il fallimento del mercato dei servizi sociali si registra anche sul lato dell’offerta. I medici, infatti, sono indotti al milk-skimming. Imputano ai pazienti cure costose inutili; dirottano i pazienti sani e danarosi nella clinica privata, e lasciano nella sanità pubblica i pazienti malati e costosi.
Oggi per riformare il welfare, senza incidere sui diritti, appaiono inderogabili due punti: fissare gli standard minimi di qualità dei servizi, onde evitare che si delineino differenti livelli di cittadinanza a seconda della Regione di provenienza; stabilire cosa può fare il privato o il III settore e cosa assolutamente non può fare se non si vuole sacrificare l’equità sull’altare dell’efficienza.
Purtroppo, nel Libro Verde sul welfare, il ministro Sacconi punta proprio su un coinvolgimento indifferenziato dei privati nei servizi sociali. Si abbatteranno i costi? Forse. Ma a quali costi sociali?
Gli articoli precedenti costituiscono un unico speciale sullo Stato sociale, uscito sul quotidiano Terra.