Migranti che fuggono dalla fame. Ma non solo. Sempre di più, si fugge anche dai disastri ambientali. Il gruppo di ricerca del German Marshall Fund of the United States (Gmf) ha appena presentato a Bruxelles un nuovo report che fa il punto sulla migrazione indotta dei cambiamenti climatici causati dall’inquinamento.
I maggiori impatti, infatti, sono e saranno focalizzati in quel Sud del mondo che già soffre di altri problemi, come carestie, siccità, innalzamento del livello del mare e desertificazione. «Separare l’impatto dei cambiamenti climatici dagli altri fattori che scatenano l’immigrazione è difficile», ha dichiarato Susan Martin, direttrice dell’Istituto sugli Studi della Migrazione della Georgetown University e leader del Gmf. «Le nostre proiezioni ci dicono che la gran parte della migrazione sarà a carattere interno, non internazionale». Non ostante il fatto che la gran parte dei flussi di migrazione sarà “da Sud a Sud”, sottolinea la ricercatrice, ci deve essere il massimo impegno da parte delle nazioni occidentali nel lenire il problema. Per vari ordini di motivi.
Innanzitutto, sono i Paesi industrializzati i maggiori inquinatori: quindi il rapporto Nord-Sud è una relazione squilibrata dove all’Occidente vanno i benefici dell’inquinamento, come l’aumento del Pil, e al Sud solo i costi, sociali ed ambientali. I flussi migratori, inoltre, esacerberanno quei conflitti che già copiosi piagano i Paesi in via di sviluppo. Sarà, quindi, proprio l’emergere di queste crisi umanitarie, in tutta la loro virulenza, che comporterà il costo economico maggiore per l’Occidente. La migrazione verso l’Europa, infatti, sarà comunque collegata, seppur indirettamente, al riscaldamento globale, in quanto i migranti fuggiranno da conflitti scatenatesi a fronte di rimescolamenti etnici generati dall’inquinamento.
Allo stato attuale, secondo i ricercatori del Gmf, l’Europa non sembra attrezzata per gestire una nuova ondata migratoria legata a questi sconvolgimenti. Lenire il fattore ambientale, quindi, sarebbe il modo migliore per prevenire una crisi migratoria che l’Occidente potrebbe non saper gestire adeguatamente in futuro. Il problema principale, secondo il Gmf, è che una politica volta a risolvere i problemi ambientali del Sud può non generare un beneficio diretto, in Europa, da parte dei politici che vi investono, in termini di consenso elettorale e visibilità.
«Il più grande rischio che corre un’efficace cooperazione transatlantica fra Stati Uniti e Unione Europea – osservano i ricercatori Nigel Purvis e Andrew Stevenson – è che i leader semplicemente ignorino le implicazione strategiche provenienti dall’accordo di Copenhagen perché esse sono politicamente difficili da accettare». I leader potrebbero “tirare a campare”, secondo il Gmf, posponendo la soluzione a problemi che, invece, si scaricheranno sulle spalle delle nuove generazioni. Insomma, come nella teoria dei giochi, tanti comportamenti individuali razionali (cioè quelli dei politici che investono sulle politiche che costano poco e offrono visibilità, mentre le politiche ambientali sono esattamente l’opposto), possono produrre esiti collettivi irrazionali. Cioè, non agire oggi potrebbe semplicemente significare l’impossibilità di agire per risolvere, in futuro, o anche dover sopportare dei costi maggiori di quelli che si pagherebbe, oggi, per risolvere il problema.
Il Gmf consiglia di sottrarre alla polemica politica temi come quelli ambientali; bisogna trovare un consenso bipartisan per implementare misure necessarie che siano sottratte alla aleatorietà di decisioni che cambiano al cambiare delle maggioranze. «La chiave del successo per Usa e Ue – conclude Nigel Purvis – sarà offrire supporto finanziario sulle basi del “paga a seconda della performance” (a pay-for-performance approach) e si dovrà allineare la politica internazionale del commercio agli obiettivi climatici». L’Europa, ammonisce il Gmf, dovrebbe essere pronta a continuare sulla strada giusta anche qualora l’America dopo Obama ripiegasse su posizioni conservatrici, ostili all’ambiente.